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CATTIVI SI DIVENTA: L’EFFETTO LUCIFERO

Philip Zimbardo

Philip Zimbardo

Philip Zimbardo è uno psicologo statunitense diventato piuttosto famoso negli anni ’70 per un esperimento, chiamato “Esperimento carcerario di Stanford“: con l’aiuto di alcuni volontari, divisi fra guardie e prigionieri, il professore cercò di indagare il comportamento di un singolo all’interno di un gruppo, di un individuo colpito dal così detto Effetto Lucifero, in grado di deresponsabilizzarlo, di fargli perdere percezione di sé e di fargli commettere azioni che, normalmente, non avrebbe compiuto.
Per realizzare i suoi studi, Zimbardo si ispirò agli scritti e all’esperienza di Gustave Le Bon, che aveva già affermato che un individuo, inserito all’interno di un gruppo, perde la propria identità ed il proprio senso di responsabilità, ritenendo le proprie decisioni decisioni di gruppo e quindi, in qualche modo, distanti e giustificabili.

L’ESPERIMENTO CARCERARIO DI STANFORD
L’esperimento iniziò pubblicando sul giornale un annuncio, destinato ad alcuni volontari che, per il loro impegno ed il loro tempo, avrebbero guadagnato 15 dollari al giorno: a rispondere furono 75 ragazzi, ma Zimbardo e i suoi collaboratori ne scelsero solo 24: tutti maschi di corporatura simile, equilibrati, senza precedenti penali, lontani da alcol e droghe, maturi, responsabili, provenienti dalla media borghesia e quasi tutti bianchi.
Con il lancio di una monetina vennero, poi suddivisi, in modo casuale fra guardie e prigionieri.
La mattina del 17 agosto del 1971 il test ebbe inizio: i giovani prigioneri vennero prelevati da casa alle 6:30 del mattino dalla polizia, portati alla prigione di Palo Alto come veri criminali per il riconoscimento e, poi, trasportati con una benda sugli occhi ai sotterranei dell’Università di Stanford, allestiti appositamente per somigliare ad un vero e proprio carcere (celle, corridoi, docce, camerate e sale di ritrovo comprese) e dotati di telecamere a circuito chiuso e microfoni. Lì, dopo essere stati spogliati e lavati a forza, vennero ricoperti da una polvere disinfettante, proprio come in un vero centro di correzione.

Una delle guardie dell'esperimento carcerario di Stanford

Una delle guardie dell’esperimento carcerario di Stanford

I due gruppi di giovani erano caratterizzati da un preciso abbigliamento: i prigionieri indossavano una tuta con un numero davanti e dietro, una rete di nylon sulla testa (per simulare la rasatura dei capelli) ed una catena sottile alla caviglia, mentre le guardie erano vestite con una divisa color kaki, occhiali a specchio per non farsi guardare negli occhi, un fischietto, delle manette ed un manganello, da tenere solo come simbolo del loro ruolo.
Le due “fazioni” dovevano portare a termine determinati compiti, seguendo dei rituali: le guardie avevano il permesso di fare qualsiasi cosa, tranne utilizzare la violenza fisica, per far rispettare le regole.

L’esperimento sarebbe dovuto durare due settimane.

GUARDIE E LADRI: LE DRAMMATICHE CONSEGUENZE
La “degenerazione” dell’esperimento fu quasi immediata: il primo ad andarsene, dopo sole 36 ore, fu un giovane prigioniero, colpito da scoppi d’ira, attacchi di pianto e deliri. Nei due giorni successivi, altri due ragazzi vennero allontanati, più o meno per lo stesso motivo.
Molto lentamente, la finzione si trasformò in realtà: le guardie pensavano di essere vere guardie, i ladri pensavano di essere veri ladri e, per tutti, quel carcere era un vero carcere.
Il terzo giorno, venne mandato un finto prete fra i detenuti, in modo da indagare direttamente il loro stato d’animo: moltissimi di loro si presentarono direttamente col numero, senza dire il proprio nome.

Una guardia ed un prigioniero

Una guardia ed un prigioniero

Anche fra le guardie alcuni cominciarono a sviluppare comportamenti particolari, segnati da cattiveria e, in certi casi, sadismo: si utilizzava l’isolamento, la privazione di cibo e acqua, il divieto di andare in bagno, l’obbligo di pulire i servizi con le mani, flessioni ed esercizi faticosi, magari salendo con i piedi sulla schiena del malcapitato…. era tutto frutto della collaborazione del gruppo e Zimbardo e i suoi non c’entravano praticamente niente.
Certo, la trasformazione colpì anche gli studiosi, che si comportarono più volte da veri e propri direttori della prigione: sventarono un tentativo di fuga (il secondo giorno) e, una volta contattati dall’avvocato di alcune familiari dei partecipanti, istituirono una vera e propria commissione per la libertà vigilata, per assicurarsi che i carcerati fossero idonei all’uscita dalla prigione.

L’EFFETTO LUCIFERO
Dopo soli 6 giorni l’esperimento cessò: durante la notte, le guardie, convinte di non essere sentite, avevano portato nei bagni tutti i carcerati, li avevano fatti spogliare e avevano messo loro un sacchetto di carta in testa.
Giudicando la gravità della situazione, Zimbardo intervenne, terminando ufficialmente il test.
Un semplice studio che sarebbe dovuto durare 14 giorni, durò meno della metà, portando a galla drammatiche conseguenze: alcune guardie rimasero insoddisfatte, molti prigionieri fecero fatica a “ricollegarsi” con la realtà, accettando di non essere veri criminali e di poter tornare alla loro vita normale.
Gli studi di Zimbardo, raccolti poi in un libro molto famoso, costituirono la base per la comprensione di alcuni eventi successivi, comprese, per esempio, le torture inflitte dai soldati ai prigionieri di Abu Ghraib: incredibilmente, le immagini del carcere iracheno assomigliavano in modo sorprendente ai video del finto carcere di Stanford.