Denis Villeneuve: fra scena indipendente e Hollywood Giu28

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Denis Villeneuve: fra scena indipendente e Hollywood

Denis Villeneuve, regista canadese diventato in pochi anni una vera e propria rivelazione su scala internazionale, si divide da sempre fra piccoli capolavori indipendenti e grandi produzioni ad altissimo impatto – fra Un 32 août sur terre e Blade Runner 2049 – analizzando l’animo umano in tutte le sue sfaccettature.
Che si tratti di una pellicola sci-fi o di un film iper realistico, ogni lungometraggio presenta alcuni tratti comuni, alcuni piccoli segni che il regista sembra ripetere con una certa sistematicità a ogni occasione.

Prisoners

Prisoners

I suoi protagonisti, per esempio, sono sempre alla ricerca di qualcosa: uomini e donne, in una posizione di potere oppure trascinati dagli eventi, sono sempre spinti verso un obiettivo, uno scopo di cui il pubblico è più o meno cosciente.
E questi obiettivi, spesso, cambiano in modo inaspettato e si intrecciano, portando i personaggi a scoprire lati della propria personalità che non conoscevano o – addirittura – elementi nuovi della realtà che li circonda.
Il Detective Loki di Prisoners, per esempio, sta cercando due bambine scomparse, ma si trova a fare i conti anche con se stesso, con la paura di fallire, con il senso di colpa, con le responsabilità; il Keller Dover di Hugh Jackman, padre di una delle due bimbe, sta disperatamente cercando la figlia, ma finisce per riportare a galla lati della personalità che pensava di aver nascosto per sempre; la Kate Macer di Emily Blunt, d’altra parte, scopre in Sicario tutti i limiti della sua risolutezza, scopre di essere una pecora fra i lupi.
E i personaggi di Villeneuve tendono a percorrere questo intricato sentiero fra interiorità e contatto con l’esterno facendo i conti con una violenza estremamente realistica, quasi crudele: gli incidenti in auto, per esempio, sono ricorrenti e segnano sempre un momento di rottura cruciale (in Enemy, in Prisoners, in Sicario, in Blade Runner 2049…), ma non mancano scene estremamente realistiche, che portano lo spettatore a distogliere lo sguardo, o atti di brutalità verbale e psicologica (il discorso finale di Alejandro in Sicario è un esempio perfetto).

Sicario

Sicario

Alla fine, fra smarrimento, incomprensioni, violenza, mistero, quello che emerge è sempre l’isolamento: con un intricato passaggio fra prima, seconda e terza persona, ogni inquadratura consente al pubblico di “sentire” la solitudine dei protagonisti, di percepire la loro paura, di condividere le stesse emozioni, di rimpiangere un momento di disattenzione con il Detective Loki, di pentirsi con Keller, di scegliere la sofferenza per amore con Louise in Arrival.
Ogni scelta è condivisa e si riflette sullo spettatore, che non può rimanere indifferente.

Denis Villeneuve ama costruire i suoi film sulle emozioni, partendo dalla prima scena: l’apertura di ogni film è sempre d’impatto e – anche se parzialmente incomprensibile o realizzata ad arte per confondere (Arrival) – svolge la funzione di catturare immediatamente l’attenzione dello spettatore.
L’immersione è totale fin dai primi secondi e la tensione è tale da costringere a trattenere il respiro fino all’ultimo.